![]() In punta di piedi nel mondo dell’altro Quando si entra nel mondo dell’empatia, troviamo una quantità considerevole di definizioni, alcune delle quali hanno trovato nell’arco degli anni, una integrazione, una evoluzione ed arricchimento, tanto da essere ritenuta una caratteristica basilare nelle relazioni di aiuto di counseling. Una definizione abbastanza conosciuta per la sua “semplicità” di comprensione, è quella secondo cui ci si mette nei panni dell’altro, condividendone lo stato emotivo e provando una emozione simile o uguale a quella altrui, con la consapevolezza che la causa del proprio stato emozionale, però, è l’emozione dell’altro. Provare empatia per qualcuno significa comprendere le emozioni che sta vivendo l’altro per viverle poi personalmente, creando dentro di sé uno spazio nel proprio mondo interiore per accogliere il mondo dell’altro. Se ci affacciamo nel vasto mondo della psicologia, vediamo che lo studio e l’approccio all’empatia si è differenziato per due modi diversi di concettualizzazione della stessa. Una linea propende a considerare l’empatia una esperienza di partecipazione/ condivisione delle emozioni vissute dall’altro, dandone una natura primariamente affettiva; mentre l’ altro indirizzo la identifica come la capacità di comprendere il punto di vista dell’altro, delineandola maggiormente sul piano cognitivo. La linea primariamente affettiva è in sintonia con il significato più popolare espresso all’inizio di questo articolo, tipico degli psicanalisti, psicoterapeuti e psicologi sociali della prima metà del secolo scorso, mentre il potere della dimensione cognitiva nelle risposte empatiche, è da attribuire a studi dagli anni sessanta in poi. In questa prospettiva l’empatia viene valutata come la capacità di sapersi decentrare cognitivamente, comprendendo il modo di valutare e vivere una data situazione da parte dell’altro. Ciò significa comprendere i pensieri, le intenzioni, riconoscere le emozioni dell’altro, subordinandole, però, alla sfera cognitiva. Nelle relazioni quotidiane spesso accade di confondere empatia con simpatia, creando relazioni totalmente differenti e spesso sterili. Pur con sfumature diverse e qui solo lievemente accennate, abbiamo visto che la risposta empatica implica la capacità di mettersi nei panni altrui, agendo un “come se”; la risposta simpatica, invece, determina dispiacere/disagio/piacere per la situazione che l’altro ha vissuto, ed il proprio intervento è mirato a sostenere la reazione dell’altro. In una relazione d’aiuto di qualsiasi genere, la risposta simpatica non è di ausilio all’altro; l’essere accolto, ascoltato senza giudizio, l’ essere sostenuto perché si percepisce che chi sta di fronte sta veramente vivendo il sentire emozionale proprio del momento, fa si che si possa creare uno spazio di apertura, di racconto di sé, in una relazione di confine, in cui chI si pone in ascolto empatico non si fa inglobare nel mondo dell’altro. Questo modo d’essere in relazione empatico dell’altro lo dobbiamo in primis ai neuroni a specchio, attraverso cui siamo in grado, attraverso il “rispecchiamento” di provare ciò che prova il nostro interlocutore. Laura Venturoli laura.venturoli@gmail.com www.lauraventuroli.com www.facebook.com/BenEssere2016
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LAURA VENTUROLIInsegnante, counselor olistico, pedagogista, psicomotricista, istruttrice fitness/wellness, operatore reiki e tecniche bionaturali, thetahealer Archivo
Gennaio 2019
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